martedì 14 novembre 2017

In Italia non arrivano cervelli stranieri

(Fonte: "Affari&Finanza")

L’indice,  che  misura ogni  anno  la  capacità di sviluppare, attirare e fidelizzare i talenti di 118 Paesi, è costruito dalla multinazionale di selezione del personale assieme ai centri di ricerca di Insead e Human Capital Leadership  e ci  vede  per  il  2017  al 40esimo  scalino,  lontani  dai
Paesi europei di riferimento.
La Svizzera è al primo posto,  Singapore  al  secondo,  il Regno Unito, nonostante Brexit, si conferma al terzo. Danimarca,  Finlandia,  Norvegia, Olanda e Irlanda sono tutte posizionate nelle dodici nazioni di testa. La Germania è sul gradino 17, la Francia sul 24. La Spagna, simile per Pil e peso
della  crisi  economica  subita, ci precede di cinque postazioni e meglio ancora ha fatto il
Portogallo (31). Dopo di noi la Grecia, ferma al 43esimo posto, e tutto sommato posizionata meno peggio di quanto la debacle  dei  conti  pubblici avrebbe fatto pensare. Ma ci superano anche la Costa Rica (39) e le Barbados (36) che, almeno a quanto valutano le ricerche, sembrano dare qualche speranza in più ai giovani talenti. Quello che pesa sul cattivo  risultato  dell’Italia  è  soprattutto l’incapacità del Paese  di  costruire  accanto  alle aziende e alle risorse un ambiente favorevole alla crescita di entrambi, in grado di promuovere la concorrenza, l’innovazione e l’esercizio delle attività.
Bocciato  il  Paese  nel  suo complesso, non vanno meglio le singole città . Lo stesso indice applicato alle aree urbane vede, fra le prime cinquanta mete preferite da professionisti e risorse, solo tre centri italiani: Bologna al 26esimo posto, Milano (31) e Torino (35).
Dunque non abbiamo eccellenze riconosciute: essere un Paese attrattivo vuol dire mettere assieme aspetti legati alla qualità della vita, alla forza economica positiva e alla visione di  lungo  periodo.
Un mix che nelle città di dimensioni medie sembra più facile da realizzare: Bologna, Milano  e  Torino,  sono  lontane dal gruppetto di testa (Copenaghen, Zurigo ed Helsinki, ma vengono comunque prima di importanti  piazze  del  business internazionale come Dubai (36) o Shanghai.
Nella scelta fatta dai talenti sul luogo dove stabilirsi premia la qualità della vita, ma soprattutto la vitalità del territorio. Bologna, per esempio, grazie anche al supporto di una università di grande tradizione, è un territorio fertile per la nascita delle startup. Milano e Torino attraggono  più  di  altri  centri grazie agli investimenti finalizzati alla crescita.
In  realtà  “piccolo  è  bello” per certi aspetti aiuta, ma non può più bastare in un Paese
che non solo non premia la ricerca ( la percentuale di Pil dedicata resta ancorata all’1,38%
contro la media Ue del 2%) ma non è nemmeno disposto a retribuire bene i talenti in cerca
di realizzazione.
Dietro  quel  quarantesimo posto che ci esclude dalla fascia alta dell’attrattività vi è infatti  anche  un  problema  di compensi.  Le  retribuzioni,  si sa, sono più alte nei Paesi dove c’è crescita e in Italia la crescita rimane al di sotto di quella messa a segno da altri partner europei. Per cui, selezionare una città o un’azienda italiana in media non paga.
A  stilare  una  graduatoria, sotto questo aspetto, è l’indagine elaborata ogni anno dalla
società di consulenza americana Willis Towers Watson (“Global  50  Remuneration  Planning”). A guardare la retribuzione annuale lorda delle prime venti economie europee, i manager italiani di medio livello sono posizionati al 14esimo posto, che scende al 17esimo se le entrate non vengono lette in termini nominali, ma di potere d’acquisto. Costo della vita e tassazione fanno la differenza.  Ecco  quindi,  spiega  il rapporto della Willis Towers, perché di fatto i 70 mila euro lordi medi annui guadagnati in Italia da un manager di profilo medio, alla fine si riducono alla soglia reale dei 43 mila.
Anche qui in testa, ancora una volta, è la Svizzera: un quadro che lavora nella Confederazione  elvetica  intasca  circa  160 mila euro l’anno, il doppio di un collega italiano di pari livello, un dirigente fresco d’incarico parte dagli 85 mila. Certo anche lì, tasse e costo della vita accorceranno poi le distanze, ma non significativamente. Al netto della competitività del sistema Paese e del sistema educativo e al di fuori dagli investimenti e dal livello della tecnologia  applicata  su  cosa
può contare l’Italia per attrarre talenti dall’esterno? Qualità della vita e bellezza dei luoghi,
troppo poco per motivare una scelta.
ManagerItalia ha sondato il problema  chiedendo  ai  dirigenti  italiani  che  lavorano
all’estero se i loro colleghi sarebbero  disposti  a  trasferirsi da noi. Fra quelli che hanno dato il loro assenso il 90% ha legato la scelta al desiderio, fra altri motivi, di vivere  in  uno dei più bei Paesi del mondo, solo il 12% ha visto nell’Italia buone  possibilità  di  crescita professionale.  Fra  le  critiche
mosse con maggior frequenza al sistema, la tendenza al declino economico (98%), e il mondo del lavoro che non premia il merito (43%).


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