martedì 6 febbraio 2018

Lo smart working decolla nelle grandi imprese del Nord “Lavoratori soddisfatti”

(Fonte: "Affari&Finanza")

È una legge giovane, ma promette di essere una grande opportunità per ripensare il lavoro del futuro. Si tratta dello smart working (legge 81), detto anche lavoro agile o flessibile, cioè lo strumento che consente al lavoratore di scegliere — in accordo con la propria azienda — gli orari e il luogo in cui svolgere la sua attività. L’obiettivo è migliorare l’equilibrio tra tempi di vita e di lavoro, aumentare la produttività e il benessere dei dipendenti, a beneficio dei lavoratori stessi e dell’azienda.
Negli ultimi anni un buon numero di imprese in Italia ha iniziato a utilizzare forme di flessibilità lavorativa e, con l’approvazione della legge, simili modalità sono proliferate. Secondo una
recente ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano solo nel 2017 il lavoro agile è aumentato del 14% rispetto all’anno precedente (e del 60% rispetto al 2013), raggiungendo quota 305 mila smart worker, l’8% del totale dei lavoratori presi a campione, più della metà dei quali sono impiegati nelle regioni del nord Italia. Persone, fa notare il Polimi, che si distinguono per maggiore soddisfazione per il proprio lavoro e maggiore padronanza di competenze digitali rispetto agli altri lavoratori.
In particolare, la ricerca riporta che l’adozione dello smart working cresce tra le grandi imprese: il 36% ha, infatti, già lanciato progetti strutturati (il 30% nel 2016), ben una su due ha avviato o sta per avviare un progetto. Ma le iniziative che hanno portato veramente a un ripensamento complessivo dell’organizzazione del lavoro sono ancora limitate e riguardano circa il 9% delle grandi aziende. «Tra queste c’è la Ferrero: su oltre 12 mila ore lavorate in modalità agile, ne sono state risparmiate circa 5.000 di viaggio» premette Mario Fusani, giuslavorista e partner dello studio Legale GF Legal Stp, che ha analizzato a fondo la legge 81.
«Lavorare in modalità smart — aggiunge — ha influito positivamente sulla capacità individuale di organizzare il proprio tempo, sul rispetto delle scadenze e sull’autonomia di gestione del proprio lavoro. I manager non hanno riscontrato differenze tra la quantità e la qualità del lavoro in modalità smart, rispetto a quello svolto in azienda».
Un altro esempio pratico riguarda Generali: «L’esperimento è partito dalla sede di Milano ma
verrà esteso o probabilmente è stato già esteso anche a quella di Roma — sottolinea Fusani —. In
questo caso è stata riscontrata maggiore soddisfazione dei lavoratori, maggiore produttività e
capacità di regolarsi in autonomia».
Non solo, il rapporto di fiducia con l’azienda è migliorato perché «la società fornisce ai lavoratori un ufficio mobile, ossia un pacchetto tecnologico completo di pc, telefono e software per accedere al gestionale della compagnia. Formazione di base su tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro», osserva l’avvocato. E ancora: il caso Axa. «Qui tutto il personale aziendale può optare per lo smart-working. Per questo motivo, non vi sono più postazioni fisse ma ambienti dedicati a creatività, innovazione, collaborazione e concentrazione», puntualizza Fusani.
Significativo infine l’esperimento di smart working portato avanti da Tim nel periodo 2016-2017 (primo semestre), realizzando un risparmio di oltre 1.400 tonnellate di Co2 e 302 mila ore di pendolarismo in meno. «Ora è allo studio una fase 2 — spiega Fusani — modalità agile per un giorno alla settimana fino a 44 giorni all’anno, di cui al massimo 16 potranno essere lavorati presso una sede esterna ai locali aziendali qualora ricorrano esigenze di cura familiare o
tecnico-professionali, ovvero di modalità casa-lavoro. In casi eccezionali, possono essere previsti sino a 3 giorni alla settimana, anche continuativi, con un massimo di 12 giorni al mese. I lavoratori coinvolti sono tra 9-11 mila».
Se tra le grandi imprese lo smart working ormai è una realtà diffusa, anche tra le Pmi cresce l’interesse sebbene a prevalere siano approcci informali. La ricerca del Polimi riporta che il 22% delle aziende di piccole e medie dimensioni ha progetti di lavoro, ma di queste solo il 7% lo
ha fatto con iniziative strutturate; un altro 7% non conosce il fenomeno e ben il 40% si dichiara
“non interessato” in particolare per la limitata applicabilità nella propria realtà aziendale. Un discorso a parte merita la Pubblica Amministrazione: solo il 5% degli enti ha attivi progetti strutturati e un altro 4% pratica lo smart working informalmente, ma a fronte di una limita applicazione c’è un notevole fermento, con il 48% che ritiene l’approccio interessante, un ulteriore 8% che ha già pianificato iniziative per il prossimo anno e solo il 12% che si dichiara non interessato.
In conclusione, la ricerca del Polimi fa notare che è prematuro tracciare un bilancio sullo smart working, perché quello che si vede è solo la punta dell’iceberg. In effetti, sono ancora pochi i progetti di sistema che ripensano i modelli di organizzazione del lavoro e estendono a tutti i lavoratori flessibilità, autonomia e responsabilizzazione.
Eppure, ribadisce lo studio, i benefici economico-sociali potenziali sono enormi: l’adozione di un modello “maturo” di smart working per le imprese può produrre un incremento di produttività pari a circa il 15% per lavoratore, che a livello di sistema Paese significano 13,7 miliardi di euro di benefici complessivi. Per i lavoratori, anche una sola giornata a settimana di remote working può far risparmiare in media 40 ore all’anno di spostamenti; per l’ambiente, invece, determina una riduzione di emissioni pari a 135 kg di CO2 all’anno.


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