giovedì 21 dicembre 2017

(Fonte: "L'Impresa")

In Italia, nella letteratura d’impresa il termine “manager” compare intorno agli anni ’50 del secolo scorso. Sostituiva l’unico e analogo sostantivo utilizzato negli anni del fascismo (che negava qualsiasi termine di origine anglosassone): “capo”.
Fino a quell’epoca si diceva e si scriveva capo reparto, capo officina, capo ufficio (ma il termine proprio per questi ruoli è tuttora diffuso nelle organizzazioni). Le prime a introdurre nel lessico d’impresa (e negli organigrammi) il termine manager furono le aziende di proprietà o con radici
americane (Ibm in primis). Poi vennero gli anni ’60 e grazie agli studiosi di organizzazione (prima ancora degli operatori aziendali) che leggevano e studiavano sui testi d’oltreoceano si incominciò a utilizzare anche il termine “leader”. Ciò obbligò a precisare e a individuare le caratteristiche e
le differenze fra i due termini: leader è colui che guida sulla base di una visione d’impresa; manager chi gestisce il quotidiano di una realtà organizzativa complessa. La radice di leader proviene da lead (il cavallo che guida il branco), mentre manager deriva dal latino manus agere (che ritroviamo nel francese menager o nell’italiano maneggiare). La differenza di contenuti è importante perché oggi è acclarato che non tutti i manager siano leader e non tutti i leader siano manager (anche se talvolta
troviamo le caratteristiche di entrambi nella stessa persona). Il leader guarda al futuro, il manager è orientato al presente.
Oggi la letteratura d’impresa (e il linguaggio giornalistico) – per quel vezzo tutto italiano di impiegare termini inglesi anche quando esiste la versione italiana – usa normalmente la parola leadership per indicare l’influenzamento di qualcuno capace di far agire delle persone in un determinato modo. Della capacità di leadership fanno parte due elementi: la convinzione e il
convincimento cioè l’autostima e fiducia in sé nonché l’autorevolezza e l’ascendente personale. A partire dall’inizio di questo secolo, il linguaggio giornalistico (e non la letteratura d’impresa) ha tradotto il termine leadership in “leaderismo” (talvolta scritto “liderismo”). In prima battuta si
potrebbe dire che i due termini hanno lo stesso significato, avendo la stessa radice etimologica. Invece nell’accezione italiana, leaderismo (soprattutto con riferimento ai partiti politici) ha una connotazione negativa, se non spregiativa quasi a contrapporlo a “democrazia”. La contrapposizione in parte è vera. Se democrazia è “il potere delegato al popolo”, la leadership (senza aggettivazione) è il “potere delegato al vertice di un’organizzazione” (come diffusamente
avviene nelle aziende). Ma con opportuna precisazione, non potendo negare che l’impresa è diffusamente un’organizzazione “verticistica” (e quindi “non democratica”), gli studiosi propongono da alcuni decenni la versione aggettivata e addolcita di “leadership partecipativa” (cioè la gestione attraverso la delega e il dialogo) o quella un po’ più severa di “leadership assertiva”, cioè con il rispetto dei diritti ma nel rispetto dei doveri di ciascuno, in alternativa ad
aggettivazioni più dure come “leadership tecnocratica” o “leaderhip burocratica”. La novità di questi ultimi tempi è l’inglesismo leaderless, cioè un’organizzazione senza capi carismatici e senza gerarchia. Ma chi la usa non sa (o non vuole ammettere) che già vent’anni fa nell’ambito dell’impresa si era cercato di proporre il termine e di realizzare il modello con totale insuccesso sul piano concreto.


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