martedì 28 marzo 2017

Manager, promuovi te stesso!

(Fonte: "Business People")

Se la pubblicità è l’anima del commercio, la reputazione è il segreto di una brillante carriera. Perché lavorare e impegnarsi per ottenere i migliori risultati, non vuol dire allo stesso tempo che questi traguardi vengano riconosciuti all’esterno. E talvolta nemmeno all’interno dell’azienda, ma questa è un’altra storia. 

Come fare, dunque, per costruirsi un profilo riconosciuto anche al di fuori della propria cerchia di collaboratori e superiori? Bisogna trasformare il proprio profilo in un marchio, da promuovere con strategie di marketing particolarissime che si possono racchiudere nella definizione di personal
branding.
Utilizzando le strategie proprie del marketing, il personal branding è un processo che punta a identificare e promuovere i punti di forza distintivi di un’azienda, di un prodotto e anche del singolo dipendente o manager. Una volta creato il profilo vincente, scatta il lavoro di promozione. Se il brand positioning viene definito solitamente come la strada per piazzare nella mente delle persone un marchio associandolo a particolari caratteristiche, allo stesso modo l’identità di un professionista deve inculcarsi nell’immaginario dei collaboratori, della sua business community, dei competitor. 

E, ultimo, ma forse più importante di tutti, degli head hunter.

I manager, soprattutto di un certo livello, tendono a sentirsi arrivati, pensano di non avere bisogno di promuoversi perché hanno raggiunto una certa posizione. Il problema nasce quando il lavoro lo si
perde, un’eventualità mai troppo remota di questi tempi. (...) 

Quando ci si ritrova a inoltrare curricula, però, è già troppo tardi, se non si è messo un po’ di fieno nella cascina della propria reputation. 
Come la formica della favola, un chicco alla volta può fare la differenza e permettere di emergere all’interno di una concorrenza sempre più spietata, competente e affollata. 


Se non si è mai data importanza alla creazione di una rete di relazioni, spesso non si sa da dove
cominciare per tornare in pista. E non si hanno nemmeno i mezzi per farlo in fretta. Mentre una volta gli head hunter andavano a verificare le referenze riportate su un curriculum vitae, oggi il lavoro di approfondimento di ciascun profilo parte dal Web. E da LinkedIn, ovviamente, che è sempre più un vero social network e non solo una raccolta di profili professionali. 


Serve una prima selezione immediata quando l’offerta è maggiore della domanda, anche per scovare in fretta le bugie (...). Non essere online può essere una strategia, ma non è vincente se ci si trova a competere con un altro manager che magari ha un blog, produce post su LinkedIn o viene intervistato da riviste o quotidiani.
I vecchi media sono ancora importanti come istituzione, perché comunicano affidabilità e un riconoscimento pubblico delle tue competenze. Sono tutti strumenti che danno un’immediata percezione di che tipo di professionista sei.
Magari hai meno competenze, però sai comunicare meglio. Usare bene i social network è una skill indispensabile almeno quanto saper gestire i collaboratori o coordinare un progetto. 


Una notazione fondamentale quest’ultima, perché LinkedIn non è Facebook. Se i gattini attirano
like, i quiz matematici sono squalificanti su una pagina professionale. Le regole sono semplici e note: avere una foto impeccabile, presentarsi con job title chiari, raccontare le proprie esperienze in modo
professionale. Ma questa è la parte facile. Poi bisogna entrare in gioco, attraverso il blog Pulsar e non solo: partecipare ai gruppi di discussione su argomenti di proprio interesse e competenza, conoscere persone, fare networking. Il personal branding passa per i contenuti, dunque, non
per la ruffianeria. Anzi, inviare un curriculum pochi minuti dopo aver stretto una connessione con una persona, è una sorta di tradimento relazionale. E di certo non fa bene alla propria immagine.

Tuttavia, il lavoro online non basta, se i rapporti rimangono virtuali. Il passo successivo deve essere quello di uscire dall’ufficio e incontrare le persone per trasformarle in ambasciatori del proprio
brand. Non vuol dire parlare ai clienti – quello fa parte del lavoro – ma aprire i propri orizzonti. La caratteristica vincente di un manager è la curiosità. Andare agli incontri di Confindustria serve a poco, si devono frequentare aree sconosciute, realtà piccole, culture emergenti: al momento giusto saranno contenuti unici che ci permetteranno di distinguerci dagli altri (...). Non se ne può
più di professionisti che parlano solo di lavoro. Nessun lavoratore serve all’azienda per 365 giorni: prendersi 40 giorni di riposo per dare ossigeno al cervello, viaggiare, conoscere, per sino avvicinare i competitor per crescere insieme, dà una marcia in più.
Essere monotematici è il deserto dell’intelligenza, fa perdere ogni punto di vista sul mondo.

Chi non sente di avere tra le sue corde la capacità di lanciarsi in quest’avventura, può chiedere aiuto a un coach. Ci sono due tipi di persone. Quelle autonome nel dna, che vanno avanti da sole. E i
lavoratori che hanno bisogno di sentirsi circondati da un gruppo, di vivere l’azienda (...). Per questi è più difficile rimettersi in gioco. Magari non hanno mai lavorato nel settore commerciale o nel marketing e non sono abituati ad avere rapporti con gli altri. Per chi viene dalla produzione, dal controllo di gestione o magari da un ufficio tecnico, anche solo l’idea di dover andare a un aperitivo
per fare networking fa sentire smarriti.
Il lavoro di coaching spesso si rivela innanzitutto un’impresa psicologica. Servono due tre anni per recuperare la sensazione di autonomia (...). Le persone nelle aziende non impiegano abbastanza tempo a conoscere se stessi dal punto di vista professionale, a comprendere punti di forza e aree da migliorare. La consapevolezza di sé è il punto centrale quando si parla di sviluppo personale. 


(...)

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