mercoledì 22 marzo 2017

Lavoratori bocciati in inglese

(Fonte: "Italia Oggi")

Italiani bocciati dall’Ocse: competenze scarse o comunque poco adeguate a soddisfare le esigenze
del mercato del lavoro. Ecco cosa ostacola in Italia l’aumento delle retribuzioni e l’incremento del benessere.


Nel rapporto elaborato dall’Organizzazione parigina sull’economia italiana, il cosiddetto «skill mismatch» è uno dei punti critici. Il 12% dei lavoratori italiani risulta sovraqualificato in
competenze linguistiche, perché non in grado di utilizzare completamente le proprie competenze
linguistiche e le proprie capacità sul lavoro.
Nell’8 % dei casi è invece sottoqualificato, poiché non in possesso delle competenze normalmente
necessarie al lavoro che svolge. Percentuali che superano le medie europee rispettivamente del 10% (per i sovraqualificati) e del 4% (per i sottoqualificati). 


Il dato rattrista ma in fondo non sorprende. Basta guardare i dati elaborati dal sistema informativo Excelsior di Unioncamere in collaborazione con il Ministero del lavoro, che fotografano l’incontro
domanda-offerta nel nostro Paese. Un’assunzione su cinque tra quelle che le imprese hanno in programma nei primi tre mesi del 2017 può comportare difficoltà a reperire personale adeguato. Un problema che sembrava si stesse superando (nel 2016 ha interessato il 12% delle assunzioni totali),
che invece nel settore privato torna alla ribalta.
Le imprese hanno necessità di profili qualificati (pari al 22% del totale delle assunzioni programmate contro il 17% nel 2016). Tecnici, ad esempio, ai quali le imprese destinano il 15% delle
assunzioni in programma tra gennaio e marzo. Il 40% delle assunzioni previste riguarderà figure intermedie (15% per i profili impiegatizi e 25% per quelli del commercio e dei servizi), il 24%
operai e solo nel 13% dei casi personale non qualificato.
 

Le maggiori difficoltà di reperimento, secondo Excelsior, riguardano professioni specialistiche (40%), tecniche (quasi il 30% del totale) e operai specializzati (25%).
Al top di questa graduatoria si trovano ingegneri, architetti e figure assimilate, difficili da reperire nel 56% dei casi, a cui seguono i dirigenti (53%), gli specialisti in scienze fisiche e naturali (49%), gli specialisti della salute (46%) e gli specialisti in scienze economiche e gestionali di impresa (41%).
Come per le difficoltà di reperimento, anche la richiesta di esperienza, è determinante in 66 casi su 100 e aumenta con l’avanzare del livello professionale richiesto.
Quote molto elevate, attorno al 76-77% del totale, vengono segnalate dalle imprese delle costruzioni,
dei servizi dei media e della comunicazione e dei servizi turistici e della ristorazione.
L’esperienza insomma conta: già nel percorso formativo bisogna effettuare una pratica diretta del contesto d’impresa. Un aspetto, questo, sul quale la riforma della scuola interviene introducendo
in maniera strutturale negli istituti tecnici e nei licei periodi di alternanza tra scuola e lavoro.
 

Per cercare di ridurre questo gap, Unioncamere e Anpal (Agenzia nazionale politiche attive del lavoro) hanno siglato un protocollo d’intesa in cui si impegnano a progettare e sviluppare
applicazioni in grado di informare utenti e operatori dei centri per l’impiego sulle opportunità di lavoro, sulle imprese ad alta potenzialità occupazionale, e di offrire guide personalizzate on line sull’orientamento formativo.
La didattica delle competenze è spesso descritta come una moda importata dal mondo anglosassone. In realtà, il nesso fra il conoscere e l’agire è un tratto importante della tradizione del pensiero occidentale.
Pensiamo alle figure tradizionali dei «sapienti» antichi: la filosofia, e più in generale la cultura, non
nascono forse come tensione ad un conoscere, che non è mai fine a se stesso, ma è sempre finalizzato ad agire come cittadino di una polis, e dunque come soggetto consapevole e responsabile?
Soggetto consapevole, responsabile e soprattutto potenziale lavoratore, e motore della società. Più del sapere o del fare singolarmente, in sostanza conta per chi deve assumere il «saper fare». Il Jobs act e la Buona scuola, scrivono i tecnici Ocse, «vanno nella giusta direzione». Vi sono segnali
importanti di miglioramento nella qualità dell’insegnamento.
I quindicenni italiani in lettura, matematica e scienze progrediscono più velocemente rispetto ai
coetanei europei. Ma è sul livello di competenze medio, ancora insufficiente, che bisogna investire. L’Italia potrebbe incrementare il proprio livello di produttività lavorativa del 10% se riducesse il livello di disparità all’interno di ciascun settore al livello corrispondente alle migliori pratiche
dell’Ocse (Adalet McGowan e Andrews 2015). Dunque, la direzione è segnata ma per gli italiani c’è ancora da lavorare. O meglio da imparare, prima di poter (sperare di) lavorare. 


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