lunedì 22 gennaio 2018

Ancora sul welfare aziendale

(Fonte: "L'Impresa")

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Il primo Osservatorio Mbs Consulting sul welfare delle famiglie italiane rivela che nel 2016, in Italia, la spesa complessiva per il welfare è stata di 666,6 miliardi di euro (37% del Pil) e che le famiglie vi hanno contribuito per 109,3 miliardi (6,5% del Pil). Accade sempre più spesso che l’offerta pubblica dei servizi di welfare, anche in aree basilari come salute e istruzione, non
riesca a rispondere adeguatamente alle esigenze delle famiglie e che l’acquisto di detti servizi risulti troppo oneroso. Secondo l’osservatorio, il 76,2% delle famiglie ha dovuto rinunciare all’assistenza degli anziani, il 36,7% alle cure sanitarie e il 41,1% ai servizi per la cura dei figli. «Dalla nostra
ricerca risulta che nel 2016 tre famiglie su sette hanno rinunciato a cure sanitarie importanti – spiega  Andrea Rapaccini, consulente aziendale e presidente di Mbs Consulting –, è dunque da quei bisogni che bisogna partire e non dai parametri del welfare pubblico. Manteniamo ancora
un’impostazione obsoleta, basata su un mondo che non esiste più: oggi quasi la metà delle famiglie sono monocomponenti e quella fonte primaria di welfare che erano i nonni sono sempre più merce rara».
 

L’opportunità di integrare valore economico e sociale
In questo scenario, se da un lato è raddoppiato (dal 9,8% al 18,3%) nell’ultimo anno il numero delle imprese che ha avviato piani di welfare aziendale (dati del Rapporto 2017 delle Assicurazioni Generali sullo stato del welfare nelle Pmi), non si può dire altrettanto del corretto approccio da parte di molte aziende, ma anche delle istituzioni, a un settore in crescita e che, con un occhio al futuro, sembra rappresentare anche un’efficace opportunità di investimento. «C’è già un mercato in
evoluzione – precisa Rapaccini – quindi è sbagliato intendere il welfare come un costo, è piuttosto una risorsa, e penso a tutte quelle forme di impresa capaci di integrare valore economico e valore sociale, come le mutue o l’impresa sociale, operanti in un ambito che è perfetto per sperimentare
soluzioni di welfare adatte alle priorità del nostro tempo». Tra gli esperimenti più interessanti del momento c’è senza dubbio quello di Confartigianato, che con gli enti bilaterali, già 30 anni fa, fu tra le prime associazioni di categoria a offrire servizi che includevano già prestazioni di welfare. 


L’iniziativa di Confartigianato parte dai territori
Attraverso una rete di operatori e specialisti territoriali e le partnership con soggetti nazionali e locali, l’associazione ha sviluppato una serie d’iniziative e servizi basati sui bisogni di ogni territorio. Incrociando quattro aree d’offerta (welfare per imprese; salute e prevenzione; assistenza
e conciliazione vita-lavoro; educazione e istruzione), Confartigianato opera sia come erogatore di servizi, sia come distributore di servizi erogati da terzi. Attraverso una piattaforma che eroga servizi
che vanno dalla sanità all’istruzione, fino all’assistenza per persone non auto-sufficienti e alla cultura e tempo libero, il progetto “Nuovo sociale” ha la caratteristica di essere pensato sulle esigenze dei singoli territori e sulle differenze tra questi territori e le varie categorie di artigiani.
«Gran parte della produzione italiana è caratterizzata dall’economia territoriale – spiega il segretario nazionale di Confartigianato Cesare Fumagalli–, che ha la sua ragion d’essere in quelle stratificazioni di competenze, come i distretti. Se non tuteliamo il benessere di chi lavora sul territorio, finiremo per perdere l’esperienza, le competenze e, in definitiva, gli elementi che hanno reso inimitabile quella produzione».
 

Il fronte del welfare comunitario
La condizione essenziale per realizzare il nuovo welfare è creare reti che includano aziende, associazioni, organizzazioni sindacali, istituzioni pubbliche e soggetti del terzo settore, e in questo senso l’esperienza dell’associazionismo fa da aiuto e da traino, fornendo anche soluzioni alla disparità tra Pmi e grandi aziende nella capacità di fornire soluzioni di welfare.
«Un solo artigiano non può permettersi l’asilo aziendale – sottolinea Rapaccini –, ma 30 artigiani sì, dunque nasce così un welfare comunitario, che può dare forza e continuità al sistema e permettere anche al piccolo operatore di usufruire di servizi di welfare come se fosse un dipendente».
«Spesso le iniziative di welfare delle Pmi nascono nel silenzio e non arrivano ai giornali – continua Fumagalli –, sono fatte in autonomia e noi spesso ci limitiamo a raccogliere ciò che di più creativo è
stato fatto. Non vogliamo standardizzare le esperienze, restiamo il più possibile aderenti a quelle diversità da cui è fatto il mondo delle microimprese». Così Confartigianato censisce le singole attività nate nei territori e le ripropone altrove, replicandole o adattandole. Si tratta di iniziative spesso originali, come quella di un’impresa femminile di 9 donne che si è inventata un sofisticato sistema di “banca delle ore”, regolamentando la modalità di entrata e uscita dal lavoro con un sistema «Degno di un consulente professionista», racconta Fumagalli.
 

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La necessità di differenziare i servizi di welfare in base al territorio emerge chiaramente anche da altri dati dell’Osservatorio di Mbs Consulting, come la seconda voce di spesa di welfare delle famiglie, che è quella dei supporti al lavoro (31,2 miliardi), ovvero le spese di trasporto e di alimentazione necessarie per lavorare, sostenute da 16,6 milioni di famiglie, per un importo medio annuo di 1.877 euro.
«Per chi vive in città, un aiuto in questo senso è fondamentale – spiega Fumagalli – e l’inserimento nella legge di Stabilità di agevolazioni fiscali per gli abbonamenti al trasporto pubblico va nella direzione giusta». (...)


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