venerdì 19 gennaio 2018

Per innovare serve la gerarchia

(Fonte: "Corriere della Sera Economia")

Gerarchia sì, ma quanto basta. E superiamo, senza patemi d’animo, la ricetta politically correct della struttura piatta, che per qualche decennio è stata mitizzata come la migliore soluzione per orientare i membri dell’organizzazione all’autoresponsabilizzazione e alla deburocratizzazione.
Era stato infatti l’intero Novecento della rivoluzione industriale a consacrare l’ organizzazione piramidale e verticistica come il paradigma per una gestione ordinata e programmata. Poi, alla fine del secolo scorso, era emersa prepotentemente la Scuola delle organizzazioni piatte e snelle. Via allora il maggior numero di livelli di middle management, connettendo direttamente il vertice e la base, con il risultato di un assetto più semplificato e più celere nell’operatività! E di conseguenza, un personale con un ruolo più attivo nel processo decisionale e più motivato sui compiti ricchi e meno procedurizzati. Di fatto la morte della gerarchia e del classico rapporto asimmetrico capo-subordinato, sostituiti da un’organizzazione con status paritetico e con uno stile di direzione meno
verticale e più esteso in senso orizzontale. Il classico ristretto ambito di controllo del taylorismo veniva sostituito con un rapporto molto più ampio, dove i sottoposti ricevevano deleghe ampie e relativo empowerment.


Adesso, a sorpresa, i ricercatori innalzano bandiera bianca. Il mito dell’organizzazione piatta va sfatato. Ci eravamo sbagliati e forse avevamo messo troppa enfasi retorica nella nuova formula. E infatti, dagli studi contemporanei si nota che, se tutto è troppo piatto e se il controllo è troppo lasco, c’è spazio per una eccessiva defocalizzazione delle persone e la ambita pariteticità (ahinoi,
quant’è difficile la democrazia!) spesso alimenta conflittualità ingovernabili.
Un articolo di due scienziati di management, Bret Sauner e J. Stuart Bunderson, sul numero di dicembre 2017 della Sloan Management Review del Mit di Boston, esamina i comportamenti di più di 100 aziende high tech contenute nella lista di Fortune. E arriva a teorizzare che i processi di innovazione, per essere concreti e portati a termine con successo, necessitano di un tocco di
gerarchia. Ridurre la gerarchia quindi, secondo loro, può anche non essere conveniente.
Anche nelle specie animali, dalle antilopi alle zebre, il capobranco nei passaggi più difficili è indispensabile. E così nelle tribù, nelle chiese, negli eserciti, nei movimenti politici. E nelle aziende non può essere diverso, quando occorre scegliere una nuova direzione di marcia e quando le posizioni dei diversi membri della collettività sono divergenti. Il necessario coordinamento non può operare senza una buona linea di comando, che aiuti a concretizzare il potere e a consolidare uno status sociale ormai sempre più basato sulla competenza che non sull’anzianità.


L’articolo spiega proprio come nei momenti di maggiore innovazione – proprio nei processi destrutturati che noi battezziamo come brain storming per affrontare problemi inesplorati — occorre che qualcuno del gruppo giochi un ruolo più autocratico, magari anche solo per un periodo di tempo
limitato. Il saggio del Mit sostiene che la gerarchia aiuta le persone a meglio generare, identificare e a selezionare nuove idee. In particolare sviluppando tre funzioni critiche: 

a) delimitare le possibili linee di azione;
b) convergere su un numero limitato di soluzioni
c) implementare le scelte in modo strutturato, integrando le diverse competenze specialistiche

Così facendo i collaboratori non saranno lasciati al loro indipendente laissez-faire e si confronteranno sulle condizioni vincolanti (come il tempo, il budget, le aspettative dei clienti e del
mercato, le reazioni dei concorrenti, e così via) che aiutano a mettere in priorità le scelte più efficaci da quelle magari più fantasiose ma irrealistiche.
Elogio della gerarchia dunque, dopo una forte ubriacatura della democrazia orizzontale? No, non esageriamo, solo un pizzico, quanto basta. Come il gesto dello chef quando aggiunge l’ingrediente prezioso alla ricetta. D’altra parte non è forse vero che – come la qualità culinaria in cucina – anche il management eccellente è fatto sì di scienza, ma anche dall’arte del dosare?


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