martedì 22 maggio 2018

La sostenibilità piace (e paga)

("Affari&Finanza")

«I consumatori sono più maturi, smettono (come prima motivazione) di comperare un prodotto quando si sentono presi in giro sulla sua “reale” sostenibilità. Una presa di coscienza nei confronti degli acquisti green che troppe aziende, ancora oggi, sottovalutano».
Conosce bene il comportamento degli italiani Fabio Iraldo, professore di management della sostenibilità alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa che, con le sue ricerche (tra le più significative sul tema, il «Green Economy Observatory» in collaborazione con la Bocconi di Milano che
ha studiato oltre 3.800 aziende) sviscera il rapporto tra i consumi nazionali e le politiche ambientali delle imprese. Una relazione, quest’ultima, che negli anni si è fatta sempre più complessa: «Ormai —osserva Iraldo — siamo arrivati al punto che il 52% di noi è persino disposto a pagare di più un prodotto che considera “veramente” sostenibile. La propensione, come conferma il «Global
Survey of Corporate Social Responsability and Sustainability» di Nielsen, è in aumento del 45% rispetto al 2014. Siamo di fronte, del resto, a una nuova consapevolezza ecologica che, in Italia e nel mondo, continua ad aumentare, trainata soprattutto dal desiderio di contribuire in prima persona al miglioramento della società».

Una coscienza verde che si è formata (in modo più evidente nelle nuove generazioni, mentre per le altre ci ha pensato, in parte, il quadro normativo che, negli ultimi anni, ha trasformato in obbligo parecchie scelte virtuose) «grazie all’evoluzione del contesto sociale: dai media (più sensibili, secondo il professore), fino all’entrata nei programmi scolastici (si inizia alle elementari) di temi come la raccolta differenziata, i gas serra, il surriscaldamento globale e i cambiamenti climatici».
Una sensibilità diffusa, appunto, ma anche una variabile di marketing in più che, per Iraldo, si rivela premiante, per le imprese che investono costantemente in ricerca e sviluppo (secondo Eurobarometro 2018, la media di quelle italiane è di circa il 6% del fatturato annuale) per diventare più sostenibili.
«Oltre il 40% delle nostre imprese — precisa — usa già materiali riciclati integralmente per il packaging e il 30% considera il “latogreen”come parte integrante dei processi creativi. Fino ad arrivare a quel 25% di aziende che addirittura ha implementato la vita utile dei propri prodotti. Gli sforzi, tuttavia, variano sensibilmente da settore a settore e il margine di miglioramento è ancora altissimo. Sono poche, del resto, le aziende in grado di affrontare il tema ambientale a 360 gradi. Mosche bianche come Sammontana, Gucci, Carlsberg».

Una chiave potente, la sostenibilità, che, oltre a promuovere comportamenti migliori (un terzo, a livello globale, le aziende che comunicano la carbon footprint dei propri servizi e prodotti, secondo lo State of Green Business Report 2018), rischia però di generare scenari poco trasparenti, al limite del greenwashing: definizione anglosassone inv entata proprio per indicare quelle aziende che usano le tematiche ambientali proprio perripulirsi (washing, appunto) la coscienza agli occhi dei consumatori. Atteggiamento, secondo Iraldo, in cui rischiano di scivolare anche le nostre imprese, visto che,
secondo le sue indagini sull’affidabilità dei messaggi pubblicitari a sfondo ambientale in Italia, la carenza di chiarezza coinv olge l’84% delle aziende nazionali. «Si tratta — conclude Iraldo — di un problema talmentediffuso in tutta la Ue che la Commissione europea sta lavorando per trovare il modo di accertare che gli argomenti legati alla sostenibilità sianoveri prima di usarli per fare comunicazione».

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