lunedì 26 marzo 2018

Più produttivi se in ufficio ci si veste casual

(Fonte: "Affari&Finanza")

L’abito non fa il monaco, e nemmeno il buon lavoratore. Anzi: uno studio condotto dalla
Stormline, storica azienda inglese specializzata nella produzione di abbigliamento tecnico
impermeabile, rivela che il 61% dei dipendenti è più produttivo se ha la possibilità di vestire in modo
“casual”. Che poi l’inclinazione personale non sempre vada a braccetto con le esigenze (di azienda e mentali) dei manager, è un altro paio di maniche, in questo caso eleganti: da una ricerca condotta su 2000 persone dalla Simon Jersey, specializzata in divise da lavoro, emerge infatti che il 37% dei dirigenti sceglie di non promuovere chi si veste inadeguatamente, e che ben il 65% dei dipendenti sospetta di non aver ricevuto la promozione proprio a causa del proprio stile sartoriale disinvolto. C’è insomma da mettersi le mani nei capelli (a patto che siano puliti e ben pettinati), ma per
quanto le vecchie abitudini sian dure a morire, basta dare uno sguardo al look informale di personaggi come Sergio Marchionne (FCA) e Mark Zuckerberg (Facebook), Marissa Mayer (Yahoo!) e Mary Barra (General Motors), per capire che l’aria sta cambiando anche ai piani altissimi. “Il dress-code aziendale si è evoluto seguendo il mutamento di costume della società: un tempo – spiega Monica Nolo, direttore generale di Confart Liguria - tailleur e cravatta erano per eccellenza sinonimi dell’eleganza. Oggi la moda ci ha abituati a modelli meno formali.
Questo non significa che non si richieda ai dipendenti l’osservanza di regole, solo che sono meno rigide”. Secondo Federico Capeci, CEO di Kantar, a essere cambiato è molto più lo stile dei manager che quello degli impiegati in generale. “Il vestito rispecchia le nuove attitudini che le
aziende chiedono ai manager: agilità, modernità, sostanza. Il dress-code attuale riflette questi elementi e abbandona le cravatte, gli status symbol, ed è pensato per dare confort da un lato e posizionamento sui valori della contemporaneità e del futuro dall’altro”. Le aziende di successo, in effetti, sono oggi quelle di matrice digitale, guidate spesso da giovani e da persone dal piglio non convenzionale. “All’interno di queste realtà lo stile manageriale va di pari passo con quello personale e di abbigliamento”, conferma Capeci.
“Solo in alcune realtà manifatturiere sopravvivono costrizioni legate al dress-code, spesso per ragioni gerarchiche e perché queste sono ancora purtroppo caratterizzate da livelli e distinzioni tra
blue e white collar”. Ma qual è stato l’elemento scatenante di questa – chiamiamola così – “rivoluzione”? “Sicuramente i cambiamenti culturali e sociali in questo senso sono partiti dagli Stati Uniti con il Casual Friday, che esisteva già 20 anni fa – spiega Giovanni Pedone, country manager Italia di Lee Hecht Harrison – e da una progressiva maggior necessità di risultati effettivi e
non più di rappresentazioni autoreferenziali, cresciuta di pari passo col desiderio di manifestare la propria immagine al di là del vestito, attraverso una miglior condizione fisica ed emotiva”. Un grosso contributo l’ha dato, inoltre, la diffusione di nuovi strumenti di lavoro e comunicazione quali video-conferenze e riunioni via web. “Tutto questo – precisa - ha inevitabilmente ridotto la
necessità di seguire dress-codes troppo rigidi e formali”. La questione rimane di primaria importanza, tanto che un’organizzazione inglese  fornisce a chi ne ha bisogno la “interview suits”, cioè la corretta uniforme per un colloquio di lavoro. I settori legati all’Information Technology, alla comunicazione, alla grande distribuzione e al marketing sono quelli dove il passaggio dal vecchio al nuovo modo di pensare è più evidente; nel mondo finance, legal e della consulenza di alta
direzione esistono invece ancora forti legami con schemi più tradizionali. “Da segnalare anche come questa tipologia di cambiamento abbia impattato maggiormente il genere maschile, mentre quello
femminile aveva, come spesso accade, già da tempo superato e anticipato il trend attraverso codici che, pur mantenendo e sottolineando l’eleganza e il decoro, permettevano di personalizzazione e di
sentirsi a proprio agio”, conclude Pedone. Le donne, insomma, sono sempre state un passo avanti, con o senza tacco. Anche se a dire il vero è l’Italia tutta che, in questo campo, merita una menzione d’onore. “Il cambiamento è più evidente in Paesi di matrice anglosassone quali la Gran Bretagna e
gli Usa, dove il dress-code in molti casi era davvero parte del regolamento aziendale. Da noi – conclude Nolo - si è sempre stati più inclini ad accettare che i dipendenti adottassero un look “casual
chic”, che consentisse una certa comodità senza venire meno alla forma”.
Con o senza volerlo, abbiamo sempre dato retta a Coco Chanel, la stilista che cambiò il modo di
vestire della sua generazione: “Per essere insostituibili bisogna essere diversi”. E vista la fame di creatività delle imprese, c’è da augurarsi che la diversità invada davvero gli uffici, di pari passo con
qualità e sostanza, abilità che un abito non potrà mai né nascondere né valorizzare.


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