giovedì 8 marzo 2018

Le quote di genere avanzano

(Fonte: "L'Economia")

Al tavolo delle decisioni le donne sono aumentate, ma contano ancora poco, pochissimo.
Sono più di tre su dieci, il 33,6%, le presenze femminili nei consigli d’amministrazione delle aziende quotate italiane. Si è superata la quota di un terzo prevista dalla legge GolfoMoscadel 2012. Buon risultato. Il dato crolla però se si guarda alle posizioni occupate.
Erano solo 17 al 30 giugno dello scorso anno le amministratrici delegate su 229 società considerate: il 7,4% per una incidenza sulla capitalizzazione dell’1,8%. Vuole dire che le donne comandano, quando lo fanno, nelle aziende più piccole. Comunque nel 2013 erano il 5% quelle al vertice. Incremento lieve.
Diverso è per le donne presidente: erano 26 lo scorso anno (11%), triplicate dal 2013 (da 9, il 3,7%). Per lo più in aziende grandi (coprono un quarto della capitalizzazione). Lo dimostrano le società a maggioranza di Stato come le Fs (Gioia Ghezzi), le Poste ( Bianca Maria Farina), l’Eni (Emma Marcegaglia). Consolazione relativa.
 

Più dell’Inghilterra
Di buono c’è che l’Italia ora vince il confronto con l’Europa. Anche all’estero infatti il numero delle donne nei consigli si è impennato, ma se l’Italia era ultima e sotto il 5% fino al 2010, ora è battuta solo dalla Francia (dati Boardex al 2016) che ha quattro posti femminili su dieci nei consigli. Seguono Regno Unito e Germania (25%-30%) mentre la Spagna resta lontana (sotto il 20%, una su cinque).
La foto è della Consob che oggi a Milano, al convegno con Assonime, presenterà il suo Rapporto 2018 (con dati 2016 e 2017) sulla corporate governance delle quotate alla Borsa italiana.
In generale, l’Italia si sta allineando al resto d’Europa. I board si snelliscono, le informazioni circolano, le holding si sciolgono e c’è più dialettica. Aumentano nei board i giovani e le donne, che
fra tutti sono le più istruite: oltre che sempre meno espressione delle famiglie azioniste, sempre più consulenti e professioniste.
Una novità di quest’anno è poi l’attenzione alle informazioni non finanziarie, che le società dovranno pubblicare coni l bilancio 2018. Per esempio rispetto dei lavoratori, del territorio. Per
ora, solo 26 società dell’Ftse Mib, su base volontaria, hanno pubblicato un report di sostenibilità. È l’inizio.
Fino al 2016 le quotate italiane erano ad azionariato tutt’altro che diffuso: il primo azionista controlla in media il 47% del capitale e al timone restano le famiglie che controllano sei società su
dieci (146, il 64%), per una capitalizzazione però che è solo un terzo del mercato. Medie aziende, quindi. Il contrario accade allo Stato e agli enti locali che sono presenti come soci di riferimento in solo 21 società, il 9%, ma giganti perché coprono il 36% della capitalizzazione. La situazione forse sta cambiando, perché tra le società quotate nell’ ultimo triennio, dice la Consob (2017 compreso quindi), il peso delle famiglie si è ridotto (28%, dato medio dei tre anni) e aumenta quello dei fondi, anche di private equity o sovrani. Che già nel 2016 avevano una partecipazione di oltre il 3% in 19 società, contro le 13 dell’anno precedente.
Si conferma la frenata delle coop. Dopo la legge del 2015 che ha anche riformato le banche popolari, il numero delle società cooperative nel capitale al 2016 era più che dimezzato in otto anni
fra le aziende non controllate: quattro nel 2016 dalle dieci del ‘98. È leggermente calata poi nel periodo anche la presenza degli investitori istituzionali, cioè fondi, banche, assicurazioni: hanno partecipazioni rilevanti (in media il 7,5%,) in 61 quotate, una su quattro (il 26%). Nel 2014, una su tre.
Gli istituzionali stranieri, in particolare,sono azionisti di 50 quotate, il 21,6%: un’inversione, visto che nel 2014 erano al 23%. La Consob ritiene però il dato tutto sommato stabile, tenuto conto dell’effetto-soglia (dal 2016 la partecipazione rilevante va dichiarata sopra il 3% anziché il 2%). La partecipazione alle assemblee dei fondi è d’altra parte cresciuta nel 2017 al 30% dei voti.
 

I voti contrari
Le aziende familiari stanno apprezzando il voto maggiorato, cioè la possibilità per chi è socio da almeno due anni di pesare fino a due voti per azione. È una garanzia di controllo per chi debutta in Borsa. Sono 35 su 230, al 2017, le società che, dopo il decreto Competitività del 2014, hanno previsto questo meccanismo, in gran parte familiari.
Mentre restano al lumicino quelle che hanno scelto il voto plurimo: si sono quotate così due spac, Fila e Aquafil.
Sono diminuite le scatole cinesi: solo il 16,5% delle società fa ora parte di un gruppo verticale, una su sei. Vent’anni fa erano il 39%, quasi una su due. I membri dei board inoltre sono scesi in 11 anni da circa 12 a circa dieci e l’Italia ha consigli più snelli di Spagna, Francia, Germania. Iconsiglieri indipendenti sono ormai circa la metà (il 48%), ma in generale resiste l’accumulo d’incarichi in altre quotate: succede in più di due terzi delle emittenti.


Cresce, infine, il dissenso in assemblea sui compensi degli amministratori: in particolare è raddoppiato in quattro anni nelle medie aziende.


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