giovedì 22 marzo 2018

I 6 pilastri della crescita

(Fonte: "Il Corriere della Sera Economia")

I numeri dei «500 Champions» parlano da soli. Un fatturato aggregato di oltre 20 miliardi e 4 miliardi di ebitda. Rapporti nettamente superiori a quelli di tanti colossi. Ma al di là delle cifre, dalle testimonianze degli imprenditori intervistati per l’indagine emerge un altro fattore: la netta discontinuità di modelli rispetto a quelli più comuni che contraddistinguevano le aziende negli anni precrisi In questo «scarto», abbiamo individuato alcuni tratti comuni.
 

1) Il valore del capitale umano. 
Le persone rappresentano l’asset più importante, quello in grado di produrre valore nel tempo e di mantenerlo. La logica di questi imprenditori è: sono le persone a «fare» le aziende.
 

2) Il cliente al centro. 
Non solo scelte di customizzazione e capacità di rispondere in modo flessibile alle sue esigenze, ma anche un servizio ineccepibile e parte ntegrante del prodotto. 

3) Il posizionamento di nicchia. 
La scelta dell’iperspecializzazione può riguardare i prodotti, ma anche i canali o i modelli distributivi, così come il segmento di mercato. Le nicchie difficili da presidiare per i gruppi globali sono terreno d’elezione per i Champions.

4) La capacità di scegliere e andare controtendenza.  

Le nuove imprese pianificano e investono su orizzonti lunghi, anticipano il cambiamento e, spesso, lo impongono. 

5) La focalizzazione sulla propria attività.  
Sono aziende con una forte patrimonializzazione, che reinvestono gli utili in azienda e sono totalmente autonome dal sistema bancario: vogliono essere in grado di sfruttare le fasi di crisi per consolidare il posizionamento competitivo. Perciò investono continuamente in tecnologia e risorse umane, a prescindere dagli incentivi governativi. L’attenzione ai margini è quasi ossessiva, anche a scapito di una crescita superiore a quella (notevole) che già realizzano.

6) Valorizzazione spinta del made in Italy, inteso come «stile e cultura del prodotto». 

Spesso la scelta è produrre con filiere «corte» e sviluppare modelli di integrazione verticale»,
attraverso la costituzione di gruppi industriali che integrano ogni segmento del processo produttivo.
Tutti questi fattori hanno consentito il consolidamento di un enorme vantaggio rispetto al resto delle imprese proprio negli anni della crisi, dal 2010 al 2016. L’indipendenza dal sistema finanziario ha reso questi imprenditori liberi di investire e rafforzare il proprio posizionamento mentre, attorno a loro, chi aveva fatto uso (spesso molto spinto) della leva finanziaria riduceva inevitabilmente le risorse destinate a innovazione e sviluppo. E la sfida con le global companies è stata giocata evitando lo scontro diretto sulle quantità e sui costi di produzione, ma portando la competizione sul terreno della customizzazione, dell’iperspecializzazione, del customer service ad alto livello. Un esempio per tutti? La bergamasca Kask compete negli Stati Uniti con i colossi del settore vendendo i propri caschi per la sicurezza nei cantieri edili a 130 dollari contro i 10 dollari dei loro concorrenti. I risultati? Da 5 a 35 milioni di fatturato in 6 anni e un un’Ebitda del 21%.


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