mercoledì 11 novembre 2015

Meditate manager, meditate

(Fonte: "Il Venerdì")

"Bisogna essere, non fingere". Questa è stata la prima frase.
La seconda: "Non simulare quel che non sei, perché sul lungo periodo non funziona".
Alla terza arriva lo spaesamento per chi ascolta: "E' necessario avere consapevolezza dei propri pensieri. E' un concetto derivato dalla meditazione vipassana buddista. In inglese viene chiamata mindfulness ed è molto in voga". Dove? Nell'addestramento di manager e dirigenti. Almeno in quelle aziende dove si crede che l'organizzazione del lavoro sia un nodo essenziale per stare sul mercato e che, di conseguenza, la gestione delle risorse umane sia una scienza che deve diventare esatta.

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Quando si parla di lavoro organizzato in maniera intelligente, smart working, in genere ci si riferisce al concentrarsi sugli obiettivi e non più sul tempo che si passa in ufficio, alla riduzione dei gradi gerarchici, alla possibilità di collaborare anche da fuori, dove è necessario, utile o più semplicemente piacevole stare, invece di dover per forza occupare una scrivania in uno spazio solo lavorativo. Stavolta però si tratta di compiere un passo a monte: cambiare la mentalità di chi il lavoro degli altri lo organizza. Secondo il rapporto dell'Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, presentato il 20 ottobre, soluzioni di lavoro intelligente sono state adottate da circa due aziende su dieci in Italia e il risparmio sui costi arriva spesso al 30 per cento.

Il pregiudizio da noi, è che in questo modo si lavori meno (...) in realtà, semmai, il rischio è opposto: visto che lo puoi fare ovunque e a qualunque orario, lavori sempre perché è quel che ti viene richiesto. Con un crollo conseguente della produttività. Ma, stando al Politecnico, in otto aziende su dieci non arrivano nemmeno a porsi questi problemi. Gestite da dirigenti inadeguati, vivono solo di emergenze. L'inadeguatezza nel programmare si trasforma nella necesità di avere sempre tutti a portata di mano (...). E' un'attitudine accompagnata dall'incapacità di valutare i risultati, giudicando gli altri solo in base ad aspetti secondari come il tempo che passano in ufficio. Ma sarebbe un errore pensare che questo sia un difetto degli amministratori delegati, perché quelli in genere già lavorano per obiettivi e sono ben contenti di risparmiare e aumentare la produttività. No, il problema è nei quadri medio-alti.

Oltreoceano si sono spinti sufficientemente in avanti da iniziare a criticare anche il modello della compagnia solare tipica della Silicon Valley, da Google a Facebook. Quelle dove la felicità del dipendente è fra le priorità perché si traduce in entusiasmo nel lavoro. Il sociologo inglese William Davies recentemente ha pubblicato "The Happiness Industry: How the Government and Big Business Sold us Well-being" (...) dove si sostiene che certe compagnie stanno investendo così tante risorse per rendere contenti i dipendenti che chi non aderisce a questo nuovo modello di armonia viene visto con sospetto.

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Il mondo è pieno di persone che fanno i manager per il motivo sbagliato e vengono promosse per caratteristiche errate. Si cerca di far carriera per guadagnare di più e per essere riconosciuti socialmente. E ci si circonda di simboli del potere inutili: la scrivania più grande, il posto macchina riservato, il computer più potente. Fare il manager invece è gestire risorse ed essere capaci di valorizzarle.

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Le conoscenze oggi sono distribuite in maniera orizzontale. Chiunque pensi di saperla più lunga a  priori rischia un brutto risveglio e di sicuro come manager fa un pessimo lavoro.
Quando invece una persona riesce a trasformare il suo team i risultati sono evidenti.

La felicità di un dipendente conta molto e costa anche (...) ma la si può vedere come un investimento: ogni persona ha una parte di energia che può impiegare nel lavoro se è motivata ed è contenta. A patto di avere dei manager che sanno mettere in pratica questa filosofia.

Viene da pensare alla Olivetti degli anni Cinquanta o alle scuole manageriali della Pirelli degli anni Settanta e Ottanta. Ma è l'ingresso della psicologia nella formazione a fare ora la differenza. Si tratta di sviluppare se stessi. (...) Trent'anni fa, al tempo degli yuppie, l'unica cosa che importava erano i margini di guadagno e la soddisfazione degli azionisti. Poi sono arrivati i valori dei clienti, in seguito quelli degli impiegati e ora si guarda allo stato mentale dei manager. Con una certezza: non è la tecnologia a liberare il potenziale delle persone, ma le persone stesse. E' il passaggio dalla dittatura del QI, il quoziente di intelligenza, all'emergere del QE, il quoziente emotivo che nel lavoro è essenziale.

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