(Fonte: "")
"Dateci una persona e in due ore lo trasformeremo in un operaio". Il copyright è della Ford che, con la Seconda Rivoluzione Industriale in pieno corso, sintetizzava così, in una frasetta, il modello
produttivo che l’avrebbe fatta passare alla storia. La fabbrica, la catena di montaggio, le maestranze che lavorano, simultaneamente, sui macchinari, usando mani e muscoli, senza neanche pensare.
Karl Marx aveva visto tutto in anticipo, un po’ di decenni prima, tra le pagine de Il Capitale. Da un lato il capitalista che detiene la proprietà dei mezzi di produzione e decide la divisione del lavoro; dall’altro l’operaio, “disumanizzato” dall’obbligo di produrre secondo tempi e modi imposti e per il profitto altrui. A 150 anni dalla genesi del materialismo storico, a Marx, ovunque si trovi, farà certo piacere sapere che è arrivato un tempo in cui, in tema di lavoro, si parla di «evoluzione dei modelli organizzativi», «cambiamento del rapporto tra individuo e organizzazione», «autonomia dei lavoratori». A concretizzare il sogno del filosofo tedesco, se non ci sono riusciti cento anni di storia sindacale e di politiche “di sinistra”, ci ha pensato dunque la “digital revolution”, quella che ha
messo in mano ai lavoratori – in particolare ai cosiddetti knowledge worker, i lavoratori della conoscenza che oggi, più dei manifatturieri, determinano Pil e occupazione – gli strumenti per smarcarsi dalla “fabbrica”. In piena era post-industriale, insomma, la nuova terra promessa si chiama smart-working: il “lavoro agile” imperniato su flessibilità e gestione autonoma del lavoro, valutazione sulle performance e non sulla presenza fisica nei luoghi di lavoro, responsabilità personale sui risultati.
Basta dunque con postazioni fisse, orari dalle 9 alle 5, pendolarismo e cartellino da timbrare, insomma. Da oggi si lavora come, dove e quando meglio si crede, l’importante è produrre, ma nelle condizioni che ognuno ritiene più ottimali. Al resto, ci pensano tablet, laptop, smartphone e connessioni internet iper-veloci.
Dalle community alla membership“Niente di nuovo”, sostiene chi ricorda il vecchio telelavoro degli anni ’80-90. Ma in realtà le cose sono un po’ diverse. Il primo era nato per chi doveva lavorare da casa propria, svolgendo mansioni (in gran parte non troppo qualificate) davanti ai primi
videoterminali. Lo smart working, invece, è un modello di organizzazione del lavoro pensato per manager e dirigenti, free-lance e consulenti, startupper e impiegati. E si basa sulla tecnologia “mobile” che consente a chiunque di “delocalizzare” il proprio lavoro. Nel mondo, aziende come Siemens, American Express, L’Oréal, seguendo questo pattern, hanno già reso più flessibile la
loro organizzazione. E in tempi di sharing-economy, dal lavoro agile alle coworking house, gli “uffici condivisi”, il passo è breve, brevissimo. «Sebbene concetti autonomi, sono due fenomeni strettamente correlati» puntualizza il professor Mariano Corso, che di smart working con tutti i suoi annessi e
connessi ne sa parecchio, visto che da 5 anni è responsabile scientifico dell'apposito Osservatorio istituito presso la School of Management del Politecnico di Milano, «il fenomeno del coworking (il cui primo spazio è nato a San Francisco nel 2005, NdR) non è semplicemente l’affitto delle scrivanie ma è l’alternativa sostenibile e “on demand” al lavoro da casa. Uno spazio da condividere con
altri lavoratori dinamici e indipendenti che intendono fare networking e costruire, attraverso il confronto, anche nuove opportunità di business». A fine 2016 l'Osservatorio (...) ha contato nel nostro Paese almeno 40 coworking house di varia dimensione e orientamento (...). Con un bel risparmio sui costi, peraltro, visto che nella maggior parte dei casi l'affitto dei coworker è all-inclusive: domicilio postale, segreteria, strumenti informatici, utenze, aree relax e ristoro. Il tutto rigorosamente condiviso.
(...)
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)
"Dateci una persona e in due ore lo trasformeremo in un operaio". Il copyright è della Ford che, con la Seconda Rivoluzione Industriale in pieno corso, sintetizzava così, in una frasetta, il modello
produttivo che l’avrebbe fatta passare alla storia. La fabbrica, la catena di montaggio, le maestranze che lavorano, simultaneamente, sui macchinari, usando mani e muscoli, senza neanche pensare.
Karl Marx aveva visto tutto in anticipo, un po’ di decenni prima, tra le pagine de Il Capitale. Da un lato il capitalista che detiene la proprietà dei mezzi di produzione e decide la divisione del lavoro; dall’altro l’operaio, “disumanizzato” dall’obbligo di produrre secondo tempi e modi imposti e per il profitto altrui. A 150 anni dalla genesi del materialismo storico, a Marx, ovunque si trovi, farà certo piacere sapere che è arrivato un tempo in cui, in tema di lavoro, si parla di «evoluzione dei modelli organizzativi», «cambiamento del rapporto tra individuo e organizzazione», «autonomia dei lavoratori». A concretizzare il sogno del filosofo tedesco, se non ci sono riusciti cento anni di storia sindacale e di politiche “di sinistra”, ci ha pensato dunque la “digital revolution”, quella che ha
messo in mano ai lavoratori – in particolare ai cosiddetti knowledge worker, i lavoratori della conoscenza che oggi, più dei manifatturieri, determinano Pil e occupazione – gli strumenti per smarcarsi dalla “fabbrica”. In piena era post-industriale, insomma, la nuova terra promessa si chiama smart-working: il “lavoro agile” imperniato su flessibilità e gestione autonoma del lavoro, valutazione sulle performance e non sulla presenza fisica nei luoghi di lavoro, responsabilità personale sui risultati.
Basta dunque con postazioni fisse, orari dalle 9 alle 5, pendolarismo e cartellino da timbrare, insomma. Da oggi si lavora come, dove e quando meglio si crede, l’importante è produrre, ma nelle condizioni che ognuno ritiene più ottimali. Al resto, ci pensano tablet, laptop, smartphone e connessioni internet iper-veloci.
Dalle community alla membership“Niente di nuovo”, sostiene chi ricorda il vecchio telelavoro degli anni ’80-90. Ma in realtà le cose sono un po’ diverse. Il primo era nato per chi doveva lavorare da casa propria, svolgendo mansioni (in gran parte non troppo qualificate) davanti ai primi
videoterminali. Lo smart working, invece, è un modello di organizzazione del lavoro pensato per manager e dirigenti, free-lance e consulenti, startupper e impiegati. E si basa sulla tecnologia “mobile” che consente a chiunque di “delocalizzare” il proprio lavoro. Nel mondo, aziende come Siemens, American Express, L’Oréal, seguendo questo pattern, hanno già reso più flessibile la
loro organizzazione. E in tempi di sharing-economy, dal lavoro agile alle coworking house, gli “uffici condivisi”, il passo è breve, brevissimo. «Sebbene concetti autonomi, sono due fenomeni strettamente correlati» puntualizza il professor Mariano Corso, che di smart working con tutti i suoi annessi e
connessi ne sa parecchio, visto che da 5 anni è responsabile scientifico dell'apposito Osservatorio istituito presso la School of Management del Politecnico di Milano, «il fenomeno del coworking (il cui primo spazio è nato a San Francisco nel 2005, NdR) non è semplicemente l’affitto delle scrivanie ma è l’alternativa sostenibile e “on demand” al lavoro da casa. Uno spazio da condividere con
altri lavoratori dinamici e indipendenti che intendono fare networking e costruire, attraverso il confronto, anche nuove opportunità di business». A fine 2016 l'Osservatorio (...) ha contato nel nostro Paese almeno 40 coworking house di varia dimensione e orientamento (...). Con un bel risparmio sui costi, peraltro, visto che nella maggior parte dei casi l'affitto dei coworker è all-inclusive: domicilio postale, segreteria, strumenti informatici, utenze, aree relax e ristoro. Il tutto rigorosamente condiviso.
(...)
(Conosci già il nostro sito? Si chiama QualitiAmo - La Qualità gratis sul web ed è pieno di consigli per chi si occupa di Qualità, ISO 9001 e certificazione)